lunedì 20 aprile 2009

sabato 18 aprile 2009

G o m o r r a


Quando un buon film come questo viene tratto da un best-seller di successo come lo è Gomorra di Roberto Saviano, il confronto con il testo letterario sembra d’obbligo. Sembra ma non lo è. Sceglieremo una strada diversa, quella delle immagini e non quella delle parole. Matteo Garrone (Grand Prix a Cannes con questo film) prima di dedicarsi completamente all’attività cinematografica, è stato infatti un giovane pittore. E Gomorra, quello al cinema, procede per impasti di colore. Le parole non sono letterarie, ma onomatopeiche, e non servono per descrivere ciò che con gli occhi vediamo benissimo. Quella è una vita che ci sconvolge. La brutalità apparente dei contenuti, è messa nell’inquadratura con formalità estrema: pittorica, appunto. Eppure eravamo abituati a vedere sul grande schermo tante belle storie di mafiosi e mafiosetti italoamericani finite male. Cosa succede con Gomorra? Come mai le pennellate di Garrone ci pungono come lame arroventate?

Perché stavolta lo sguardo del camorrista, è anche il nostro. Vedendo il film non ce la sentiamo di dire: “Quello è un mafioso, farà la fine che si merita”. Partecipiamo alle bravate di Marco e Pisellì, come alle visite di Don Ciro, con la stessa angoscia di essere coinvolti in un Sistema che non lascia scampo. In questo senso, la macchina da presa marca stretto i suoi personaggi e timidamente fa capolino dalle colonne di cemento del rione Scampìa. Così la scelta del giovane Totò di entrare nella banda, diventa un’imposizione: “ vediamo è finito: o si o no!”. Morte o morte: in ogni caso. Dobbiamo solo capire di chi.

Il film insiste sui tratti e sui colori. Le rughe imbonitrici di Toni Servillo come i solchi della terra avvelenata dalla sua “monnezza”; le cicatrici agrodolci di Pasquale come le cuciture dei suoi abiti che mai rivedrà (o quasi). Come per Truffaut il sangue nel cinema era una macchia di rosso, così per Garrone è una tempera drammatica. Il sangue non scorre: esplode. Il “bang” della morte arriva improvviso e ci facciamo l’abitudine sin dall’avvio della storia. L’omicidio a sangue freddo si consuma in un’inquadratura “a caldo”: il nostro punto di vista privilegiato anticipa sempre di un attimo quello della vittima. Un grottesco action painting è ciò che resta dopo ogni attentato.
Lo sguardo si chiude su una spiaggia dal tramonto turchese. Vediamo ma non possiamo far nulla. Dopo aver letto Gomorra potremo dire: “Io so”. Dopo averlo visto diremo: ”Io immagino”.


A proposito del libro Gomorra e del recente terremoto in Abruzzo, leggetevi questo brevissimo articolo di Marco Travaglio.

martedì 7 aprile 2009

Ponyo sulla scogliera

La qualità di un sushi deriva dal taglio degli ingredienti, non dalla loro cottura. Per gustare un ottimo prodotto occorre rivolgersi ad un maestro. Lo stesso vale per il cinema.

Hayao Miyazaki (Leone d’oro alla carriera nel 2005) è lo chef del crudo, di quelle immagini scontornate in nero, disegnate a mano. Con Ponyo sulla Scogliera, la sua ricetta punta ulteriormente all’essenziale. Una storia asciutta e mai insipida, imbevuta di situazione quotidiane ma succose, che fanno divertire i bambini e sorridere gli adulti. Dopo aver popolato i cieli con navi volanti (Porco Rosso, Laputa, Il Castello errante di Howl), questa volta Miyazaki immerge la sua fantasia negli abissi oceanici. Il mare ci appare viscoso, come una massa lavica, pronta al taglio e brulicante di creature emergenti. È un mare d’acqua dolce e anche durante la tempesta, le onde conservano i tratti di un cremoso zucchero filato da cavalcare spensierati. Tuttavia, in questo idillio marino, Ponyo non riesce a mescolarsi, rimanendo sospesa fra bolle d’aria e secchi di plastica.

Miyazaki, semplicemente, racconta e disegna un cammino di integrazione senza impostare il classico conflitto fra bene e male. I personaggi sono tutti essenzialmente buoni. Nell’universo di Ponyo “è tutto perfetto” – come ripete il suo compagno d’avventure Sosuke. Il conflitto quando c’è, è interiore. Si manifesta nelle disinvolte metamorfosi di Ponyo a scapito della sostanziale immobilità di tutti gli altri personaggi. Caso esemplare sono i due uomini della storia (lo stregone Fujimoto e il marinaio Koichi). Li vedremo agire solo a sprazzi, come segnali morse: entrambi senza mai essere chiamati “papà” dai rispettivi figli.

Ma l’abbiamo detto, Miyazaki ora più che mai, vuole condire “a crudo” e scioglie la vicenda senza drammi troppo pepati come già fatto in passato (Il Castello di Cagliostro, Principessa Mononoke). Anche lo tsunami provocato dalla magia di Ponyo, invece che catastrofe, diviene un’occasione per guardare il mondo sotto un’altra prospettiva e accettarne le ambiguità. Per un momento il cielo condivide la stessa sostanza del mare: aeroplani e navi si sovrappongono. Il gusto sottile di Ponyo sulla scogliera solletica il palato dei fan di Miyazaki ma rimane forse troppo sciapo ad un pubblico più eterogeneo.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...