Perché stavolta lo sguardo del camorrista, è anche il nostro. Vedendo il film non ce la sentiamo di dire: “Quello è un mafioso, farà la fine che si merita”. Partecipiamo alle bravate di Marco e Pisellì, come alle visite di Don Ciro, con la stessa angoscia di essere coinvolti in un Sistema che non lascia scampo. In questo senso, la macchina da presa marca stretto i suoi personaggi e timidamente fa capolino dalle colonne di cemento del rione Scampìa. Così la scelta del giovane Totò di entrare nella banda, diventa un’imposizione: “ vediamo è finito: o si o no!”. Morte o morte: in ogni caso. Dobbiamo solo capire di chi.
Il film insiste sui tratti e sui colori. Le rughe imbonitrici di Toni Servillo come i solchi della terra avvelenata dalla sua “monnezza”; le cicatrici agrodolci di Pasquale come le cuciture dei suoi abiti che mai rivedrà (o quasi). Come per Truffaut il sangue nel cinema era una macchia di rosso, così per Garrone è una tempera drammatica. Il sangue non scorre: esplode. Il “bang” della morte arriva improvviso e ci facciamo l’abitudine sin dall’avvio della storia. L’omicidio a sangue freddo si consuma in un’inquadratura “a caldo”: il nostro punto di vista privilegiato anticipa sempre di un attimo quello della vittima. Un grottesco action painting è ciò che resta dopo ogni attentato.
Lo sguardo si chiude su una spiaggia dal tramonto turchese. Vediamo ma non possiamo far nulla. Dopo aver letto Gomorra potremo dire: “Io so”. Dopo averlo visto diremo: ”Io immagino”.
Nessun commento:
Posta un commento
Ricordati di firmare il tuo post.
I commenti anonimi non saranno pubblicati.
Peace.