martedì 26 maggio 2015

Il mito resistente di Alice: Giuseppe Sofo intervista Nexus e Laura Garofoli su LcomeAlice

"Alice è una militante transmediale"
Intervista di Giuseppe Sofo a Nexus

Roma, 20 maggio 2014.



1) Perché hai scelto di adattare Alice e perché questa tua Alice è così multidimensionale?


Non ho scelto un bel niente, ci siamo semplicemente incontrati. E non parlo di quegli incontri tipo "colpo di fulmine" ma piuttosto di quelle relazioni che si nutrono negli anni attraverso amicizie in comune, incontri fortuiti, sguardi lascivi, pensieri voluttuosi, confessioni sotto sbornia ecc. In questo senso L come Alice replica la relazione fra me e Laura - ed ecco un altro significato per la "L" di Alice! Vedi, il Senso, per come lo intende Deleuze, si forma attraverso concatenamenti non-cronologici come questi: si sceglie prima una parola e poi la si riempie di significato, in retroazione. Attenzione: questo non vuol dire fare tutto a casaccio o tramite la "sensibilità artistica" (la sensibilità non è dell'artista, semmai del mondo in cui è immerso!). La nostra è cosciente "scrittura di scena" ovvero predisposizione di trappole-significanti in cui Alice e chi gli sta attorno presumibilmente finiranno per incappare. Artaud c'è finito dentro ed invece di esplodere pare sia rinsavito. Lewis Carroll, il supposto-essere autore di Alice, ha vissuto in un campo minato di Alici fotografiche, letterarie e umane. A differenza di Walt Disney che ha ricombinato questa molteplicità di traiettorie per diffondere un immaginario monolitico ed economicamente faraonico, L come Alice ricarica il potenziale resistente, contro-culturale e utopico di Alice. Un'Alice che non si pone come Soggetto ma come "centro di gravità narrativo", significante senza significato attorno a cui si organizza la tessitura del Se-nso e la dispersione dei mondi possibili.

lunedì 4 maggio 2015

Come si racconta il conflitto? Un' analisi media archeologica della #MayDayNoExpo


Dopo la #MayDay di Milano e l'inaugurazione di Expo, l'immagine del movimento è uscita completamente intossicata. All'indomani del corteo che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone da tutta italia, la narrazione di riferimento si incentra sulle devastazioni compiute dal blocco nero durante la manifestazione, obliterando le ragioni politiche e sociali che stavano alla base di una lunga e partecipata campagna alter-Expo. Varie cornici, vari tableaux, come li chiamava Michel Foucault, si sono incastonati in questa narrazione di riferimento che, tuttavia, rappresenta l'unico setting, l'unica scacchiera entro cui giocare la partita. Piuttosto che dare un'interpretazione politica di questo scenario, vorrei analizzare le condizioni di creazione e trasformazione dello scenario stesso da un punto di vista media archeologico. L'archeologia dei media infatti, non si occupa semplicemente di portare a galla "il nuovo" dalle ceneri dei vecchi media, ma promuove una teoria e un uso radicale dei media quale dispositivo storicamente situato nel tecnocapitalismo moderno. 

Indossabili, componibili e sempre più embeddati nella realtà, noi siamo i media e la forma corteo è ormai un organismo tecno-antropologico dai confini nebulosi e dalle temporalità sovrapposte. Non si segue più il corteo "da casa", ma si può intervenire attivamente su di esso producendo immagini, moltiplicando le testimonianze, orchestrando i tempi di circolazione delle informazioni. La linearità del corteo che in passato assicurava una narrazione semplificata in 2D (si parte da un punto A, si arriva ad un punto B), oggi scompare di fronte alle narrazioni molteplici e transitorie che in tempo reale sovrappongono storie e percorsi in contraddizione fra loro. Questa database narrative, come la chiamavano Lev Manovich e Hiroki Azuma intorno al 2000, non ha però portato ad una democratizzazione delle storie, non ha dischiuso alcun "rizoma", e l'elaborazione di una strategia efficace di storytelling è tornata una questione centrale. Come si racconta il molteplice? Come si determina una linea narrativa radicale e aperta che allo stesso tempo crei consenso e partecipazione? Non si tratta semplicemente di raccontare storie alternative, ma di sviluppare pratiche di regia. Da un lato valorizzando la singolarità delle narrazioni personali, dall'altro orchestrando un ritmo narrativo collettivo e sempre aperto, come in una jam session. In pratica, poi, che fare?

*** Segue un parte teorico analitica molto corposa. Se volete, potete saltarla e andare direttamente alla parte "pratica" ***

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