Ci voleva una mezza settimana di festival per riportare il cinema su queste pagine. Ci volevano pasti frugali e coinquilini cinefili. Ci volevano 5 film al giorno: 2 ore di buio, luce, di nuovo oscurità. Ci voleva. Taiwan, Tailandia, Cina, Filippine, Giappone e l'onnipervasiva Corea del Sud: ho deciso di fissare la mia prima esperienza udinese attraverso 3 frame.
I. Il cibo: presenza pantagruelica che si degusta tra un film e l'altro. Nella commedia giovanilista Instanbul Here I Come di Bernard Chauly, nel punk all'acqua di rose di G'Mor Evian! di Yamamoto Toru e soprattutto in The Winter Of The Years Was Warm del coreano David Cho, dove il rapporto amoroso viene "consumato" in tavola e non a letto. La coppia protagonista del film di Cho, decide di scambiarsi l'appartamento. Lui si innamora, mangia un pesce palla e finisce in day hospital. Aspetterò due giorni per assistere al primo bacio del festival. Udine by night: al ristorante Asian Wok si mangia giapponese, cinese e tailandese. Si mescolano tradizioni, si condividono idee. Nel lontano est, il rituale del cibo è cinematograficamente potente perchè è una pratica di condivisione, "pittorica": condivido il mio piatto con il tuo, intingo la bacchetta, la mescolo con altri colori. Quando la condivisione diventa forzata a causa di una moglie nevrotica con l'hobby della cucina (All About My Wife di Min Kyu-dong), l'effetto è perturbante e pericolosamente divertente.
II. La lama: arma spietata quanto onesta, simulacro filosofico. The Gangster di Kongkiat Khomsiri e The Guillotines di Andrew Lau raccontano una cambio di weltanshauung: il passaggio dall'arma da taglio all'arma da fuoco. Lau con un punto di vista arrendevole e a tratti fascistizzante (la morale: dare al popolo ciò che serve, pane o bombe che siano, non fa differenza), Khomsiri con una gang saga debitrice di Goodfellas ma che ti lascia le palpebre gonfie di sangue e lacrime. Infatti, in questo film tailandese viene presentato un agghiacciante rito della spada in voga tra le gang degli anni '50: legati attraverso una corda, i due sfidanti dovranno eliminarsi a colpi di coltello. Impossibile scappare. La canna della pistola, l'arrivo dei favolosi anni '60, l'orientalizzazione della cultura (per dirla con Said) ispirano e violentano una nuova società criminale dai tratti euroasiatici: Cold War di Leung & Luk e New World di Park hoon-jung in fondo raccontano la stessa corea occidentalizzata, che per strizzare l'occhio ad Hollywood, acceca lo stile cinematografico, appiattisce il drama.
III. Il sintomo: irrompe nel profilmico, rivolta la scacchiera del film. E' l'aggressione illogica di Jigu in Juvenile Offender di Kang Yi-kwan, il chiacchiericcio lamentoso della moglie in All About My Wife, e soprattutto il mefistofelico Niu Jieshi, main character di Design Of Death di Guan Hu. In questa co-produzione Cina/Taiwan, l'ordine di un arcaico villaggio votato alla nonviolenza e alla longevità, viene scosso dalla presenza infantile quanto psicotica di Niu Jieshi. Egli è davvero "il bambino che non recita la poesia" innescando la nevrosi genitoriale "Ma come? L'aveva sempre detta!". Questa suggestione di Carmelo Bene, sembra fatta su misura per Niu Jieshi, uno che piscia sui muri, interrompe i rapporti sessuali altrui, contamina l'acqua con una strana polvere afrodisiaca, devasta i rituali funebri salvando la vergine sacrificale, impreca. Nonostante i numerosi riferimenti alla psico-cultura occidentale, il film di Guan Hu rivendica una massiccia autonomia figurale. Scenografie, montaggio e fotografia schizofrenica concorrono a creare un ambiente performativo coerente con le scorribande del personaggio-sintomo. Questo cinema, quando disorienta, diventa grande.
Mezz'ora dall'ultimo film: scalo a Venezia e diretto per Roma. Udine dal panorama nuvoloso, villette bifamiliari a pochi passi dal centro storico, sneak peek di un'estate abbacinante. Torno a casa con il giusto: la media di 4 film al giorno e solo tre porzioni di cibo per la mente: The Gangster (Action), All About My Life (Commedia) e Design of Death (Drammatico). Ma il bello della visual culture è che nonstante interrompi l'attenzione o decidi di saltare la proiezione, quell'Immaginario filmico circolerà lo stesso attraverso il muro della sala; si mescolerà col tuo attraverso le leggende dei cinefili, le decostruzioni dei teorici, i mash up degli smanettoni.
Tornare dal Far East col cappello un po' lercio, le impronte che svaniscono all'orizzonte.
Caro Giuseppe, un bel pezzo che con il ritmo giusto descrive alla perfezione questa tre giorni...
RispondiEliminaUn'esperienza che tenderei a definire "sociologica" prima ancora che "cinefila", perchè ti accorgi che il confronto con la produzione mainstream ti consente di entrare dentro una cultura dalla porta principale, laddove il cinema d'autore (che ha comunque milioni di pregi) tende a universalizzare e ti lascia aperta solo una porticina di servizio per accedere agli usi e costumi di una società.
Ci siamo fatti un'idea sul modo in cui - presumibilmnte - lavora la censura in alcuni paesi asiatici... Abbiamo capito quali codici vengono considerati "passibili" e quali no... Abbiamo capito quali sono i loro generi prediletti e infine - perché no!? - abbiamo capito anche che il barbecue coreano deve essere parecchio buono ;-)
Bella esperienza in fondo... con degli ottimi compagni di viaggio...
Elio
Grazie per il commento Elio :-)
EliminaÈ bello vivere il cinema con persone nuove e spostare le discussioni sul web o attraverso altri ambienti. Il compito della critica di oggi è proprio questo: straripare.
In attesa del Korean BBQ.
Keep on movin',
N.