1. Perchè una freelosofia?
Chiariamolo subito: il breaking non è una danza. Dire che sia “anche” una danza è altrettanto fallace. Non si tratta di un anti-danza (abolizione dei canoni secolarizzati della danza accademica) né di una non-danza (uscita dal piano di referenza delle danze o balli tradizionali). Siamo nel regno della tautologia oppisitiva: il breaking è il breaking, fuori dal quale c'è solo una mancanza. Il primo breaks del breaking è quello che rompe la dicotomia danza/ballo, triturando ogni approccio duale in quella melassa problematica che in seguito verrà chiamata “jam”. Definire il breaking è come definire la sostanza di una ferita: qual'è la sua massa? Quanto dura un taglio? Il breaking è ontologicamente mancante: non è pura espressione, non è arte, non è un'estetica, non è un luogo, non è una tecnica, non è sociale, non è culturale, non è danza né ballo e soprattutto non è una filosofia.
Il breaking rompe e irrompe nella realtà nei primi anni settanta del novecento a New York, West Bronx e poi anche nel South. I kids sbracciano, reclamano un buco nella folla, teste che si abbassano, ginocchia che si flettono, rotolano, ingiuriano il terreno di Echo e Crotona Park, Skating Palace e numerosi campi sportivi delle high school. Prima a casa (house party), poi in strada (block party), il diciannovenne Kool Herc origina il concetto di breaks musicale. Isola la parte di percussione di una canzone (breakdown) e la ripropone in loop passando la stessa copia di un album da un giradischi all'altro (breakbeat). Si chiamano breaks perchè amputano il continuum musicale: nasce il cerchio. Kool Herc conierà il termine b-girl e b-boy, dove la “b” sta per break, boogie, beat o boing (in riferimento al ponpon saltellante in cima ai cappelli di lana). Nascerà il b-boying e il b-girling. Non si balla, “si brekka”. Alba dell'Hip Hop, i breaks nascono al tramonto di un'altra rottura, quella fra le gang del Bronx che nel 1971 firmarono un trattato di “Unity e Peace” capitolando la guerra territoriale degli anni '60 e lasciando che il proprio flusso violento si impastasse poco a poco di creatività repressa. Il sangue continuava a scorrere nelle strade, ma la spirale di violenza aveva incominciato ad incanalarsi nel tubo di scarico di una nuova corrente di espressione divergente.
Flashback. Durante gli anni cinquanta, il gruppo edilizio di Robert Moses aka “master Building”, costruì la prima autostrada che attraversava un ambiente urbano affollato, il South Bronx. L'arteria di 10 km che collegava l'interstatale 95 con la 295 spezzò il Bronx in due parti, favorendo l'esodo della middle class italiana e tedesca e l'innesto coatto del ceto meno abbiente di origine latina e afroamericana.
Si chiama breaking e non break-dane. Si coniuga all'infinito, perchè inafferrabile. La sua rottura è in divenire, asintodica e mai “rotta”. Dopo il '72, le b-girl e i b-boy si accumulano attorno ad altri dj del South Bronx: Grandmaster Flash, Afrika Bambaataa, Grand Wizard Theodore (inventore dello scratch?) per gli uomini, Wanda Dee e Jazzy Joice per le donne.
Dopo una manciata di anni il breaking tenta di rompersi. Molti afroamericani smettono perchè la moda è semplicemente passata. Il flusso dirompente si incanala lungo le strade della comunità latinoamericana. Dominio del mamboo, dei kongaz. Dj Charlie Chase trova spazio nei primi club, i Starchild La Rock con Track 2 e Spy iniettano una nuova linfa vitale. Afroamericani e latinoamericani mescolano i propri breaks. Emerge la storia dei rockers di Brooklyn. Nel 1977 nasce Rock Steady Crew. Crazy Legs inizia a girare la grande mela a caccia di b-boy da sfidare. Incontra Ken Swift di Brooklyn. Brooklyn e Bronx si tagliuzzano a vicenda. Nasce lo stile foundation.
Una rottura può avere delle basi? Si può rompere seguendo una scuola? Foundation significa fondamenta, ma non si tratta di un reticolo di rigide tecniche per l'evoluzione dei passi, bensì di un sistema, un metodo processuale per costruire le proprie fondamenta variabili. Il breaking è una disciplina. Le sue basi assomigliano a quelle dell'alchimia, non a quelle dell'ingegneria o della chimica. Lo stile rimanda a un qualcos'altro, che si può rompere da un momento all'altro e non certo a una serie di algoritmi e formule replicabili con microscopica infallibilità. Questo non implica relativismo culturale, ma tutto il contrario: avvicinarsi il più possibile alla comprensione analitica per poi gettare tutto al vento. Possiamo passare la vita a tentare di immortalare le ali di una farfalla su di una cornice con gli spilli, ed è solo ad allora che il suo volo sarà perso per sempre. Il breaking è il bug di sistema: ne curi uno, ne nascono altri 10. È frutto di una mescolanza, afrolatinoamericana, caraibicometropolitana, popolarhollywoodiana.
Sì perchè ad influenzare le prime b-girl e b-boy è “la mèrd” della pop culture, scarto scartato negli anni in cui tramontava l'avanguardia. Per pochi centesimi si entrava al cinema della 42esima dove i kung fu movie celebravano la stella di Bruce Lee, e l'astro nascente di Jackie Chan; in tv, dalla costa ovest, Don Cornelius presentava Soul Train, un music show con esponenti di spicco del funky-disco-soul. Get On The Good Foot di James Brown non divenne soltanto uno stile di ballo, né un breaks, ma un vero e proprio manifesto del breaking:
They're dancing on the good foot
I got to get on the good foot
Got to do it on the good foot
Do it with the good foot
Said the long-hair hippies and the afro blacks
They all get together across the tracks
And they PARTY
Ho! On the good foot
You know they dance on the good foot
Dance on the good foot
“Get together across the tracks”(Scavalchiamo insieme i binari): rompere col dualismo bianco/nero, cultura afro e hippie, fra la generazione beat e quella drum. Oltre i binari, lungo il bordo liminale della metropoli, “Ho!” - grida James Brown – la ferita è ancora aperta e ogni “good foot” è una fitta ardente in ricordo di quella mescolanza che lo Stato non tollera. Un altra “Brown”, Elaine, leader dei Black Panthers di Oakland e poi amministratrice dell'intero movimento, grida “End of the Silence” (1969):
Well then, believe it my friend
That this silence will end
We'll just have to get guns
and be men
Le “guns” non saranno solo metaforiche. In Italia come in Usa, seguiranno stagioni di sangue e terrore. [2]Sarà l'epoca in cui le minoranze sociali (i neri, il proletario) e le minoranze-delle-minoranze (le donne nere, il sotto-proletariato) cercheranno di impadronirsi di nuovi spazi e tempi (“Seize the Time” è il titolo di un'altra celebre canzone di Elaine da cui il regista italiano Antonello Branca ricavò il titolo del suo omonimo documentario sul Black Panther Party del '69). In questo senso le urla melodiche dei due “Brown” veicolano l'urlo globale di un'epoca di lotta sociale, rivendicazione culturale, fuga territoriale.
Cosa vuol dire ballare nel good foot? Rispondere in modo univoco significa scambiare il good per un “right” foot. Vedremo in seguito che la designazione di alcuni termini nel breaking è assai precisa e nasconde una grammatica sopraffina, che non ammette distrazioni. Non esiste un vero good foot come non esiste una vera nota. Altresì esistono le note esatte, ma nel nostro caso non esiste un esatto modo per declinare un good foot. La seconda parola che non deve trarci in inganno è il termine foot (piede), che nel gergo danzefilo designa un passo (step) o una serie di passi (footage). Non c'è una maniera giusta, ma esiste una strada buona, ed è quella che porta “across the tracks”, oltre i binari interstatali dei ruoli sociali e simbolici.
Da qui muovono le fondamenta di una freelosofia del breaking, una disciplina deragliata, rompiscatole, impenitente [1] e di conseguenza, linguisticamente eretica. Freelosofia non significa filosofia-libera, così come freestyle non designa uno stile-libero. Siamo nel campo del neologismo, non della composizione linguistica. La freelosofia del breaking, come il freestyle, indica l'inafferrabile variabilità dei percorsi e degli stili (espressivi, linguistici, metodologici, marziali) per rompere la realtà.
Breaking: disciplina della rottura che non è danza perchè già mai soltanto praticata o soltanto vissuta, bensì coniugata e coniugante al soggetto che ne è investito. Il breaking non è una danza, le b-girl e i b-boy non sono ballerini, eppure essi danzano. Paradosso! Si balla o si danza - insistere su questa dicotomia è palustre quanto cercare di collocare il breaking fra l'una e l'altra! - mentre nel breaking si è ballati/danzati attraverso una sotterranea tettonica di tagli.
§
[1] disciplinato agg. e s. m. [part. pass. di disciplinare2]. – 2. s. m. Al plur., disciplinati, compagnie o confraternite di cristiani (detti anche disciplinanti, cappucciati, flagellanti, ecc.) che nel tardo medioevo, spec. nel sec. 13°, si riunivano in processioni o in adunanze per flagellarsi a scopo di penitenza. (http://www.treccani.it/vocabolario/disciplinato/)
Mi piace ma ho capito poco. Ad ogni modo grazie.
RispondiEliminaMi dispiace ma invecchiando ho sempre più difficoltà ad uscire dai miei limiti e ad immedesimarsi con una cultura che, a sua volta, si immedesima con i film di Bruce Lee. Lo trovo, semplicemente, disarmante, infantile. Non ne nego il valore storico (è così, è vero, è accaduto) ma proprio quello culturale. Quando voi giovani sarete vecchi qualcuno vi rivelerà una atroce verità: i risultati culturali dell' Hip Hop sono stati abbastanza modesti: magari influenti ma modesti. Consiglio a tutti, tra un disco dei Wu tang Clan ed un chairfreeze, di leggersi anche Thomas Mann (e di lasciar perdere Bruce Lee...)
Monsa (il vero tonno superabile)
interessante e pieno di nozioni sconosciute a molti...beh non direi che i risultati culturali siano proprio modesti,l hip hop ha di fatto influenzato trasfersalmente un sacco di situazioni moda musica spettacolo pensiero,ha unito persone ,ha fatto si che molti TRAMITE esso abbiano avuto uno spiraglio di informazione....ha me sembra che culturalmente l hip hop abbia fatto e dato tanto...
RispondiEliminaahhh non volevo dimenticare a molti ha dato una possibilità.... con rispetto e sincero dialogo SHAI ozm uzn
In un'ottica del divenire, l'Hip Hop non darà mai una sommatoria di risultati. C'è stata la diffusione e pratica delle così dette 4 discipline su scala globale, l'affermarsi di una nuova fetta di mercato che agisce dentro-e-contro le logiche del capitalismo classico (quello che Matt Mason chiama "Punk Capitalismo" e io, riferendomi al breaking chiamo "Bboyxloitation), l'uso dell'HH come mezzo-per-educare e molti altri impieghi in ambito socioculturale.
RispondiElimina***
Due pericoli:
1. Che si cada nel dualismo "cultura alta/cultura bassa" (Thomas Mann piuttosto che Bruce Lee;
2. Che si de-storicizzi l'HH, senza tener presente che come sub-cultura è davvero agli albori (appena 40anni!), senza pensare che è l'unica sub-cultura degli anni 60/70 ancora globalmente attiva (oggi hippie, beat generation, punk ecc. non registrano la stessa diffusione che ha l'HH);
Il problema è che l'HH è nato già avvelenato, malato, contraddittorio: business e cultura, intrattenimento e arte, basso e alto, ecc. sono categorie in cui l'HH si pone "di taglio", come variabile invariante (X).
D'altro canto sono il primo a favorire un approccio "serio" alla specificità del paradigma Hip Hop, *anche* attraverso il confronto con la cultura "Alt[r]a" (Dino Campana come Carmelo Bene come Zizek o Deleuze). Basta non cadere nella trappola del "dato di fatto" (non darsi, ma farsi dare, non farsi ma farsi fare).