Nel 1972 alcuni ragazzi capeggiati dall’appena diciannovenne Kool Herc, si riunivano prima in casa poi in strada in quel fenomeno “big bang” che darà vita al movimento Hip Hop: il
block party. In questo humus creativo erano in gestazione tutte le discipline collegate al fattore musicale: dj’ing, mc’ing e breaking. Quest’ultima, prendeva piede in maniera del tutto spontanea, esplodeva alla ripetizione dei “breaks” di Herc:
loop di percussioni, pubblico in delirio. Semplice, come la geometria di un cerchio.
E dal cerchio, come luogo geometrico si passa al
cypher come luogo plurisignificante. Nel
cypher si condensano come un ossimoro due funzioni: quella sociale e quella estetica, quella d’aggregazione e quella d’espressione, stomaco e cuore, vita e arte a cui già altri movimenti e teorie artistiche volgevano lo sguardo (penso a
Fluxus e gli
happening). Il
cypher,
weltanschauung della danza hip hop, supera le precedenti ideologie dell’arte proprio per la sua natura spontanea e non accademica. Il Bronx, “pop-discarica” della bella Manhattan, è l’habitat naturale dei teenagers afroa-latino-americani, i quali, reinterpretano antichi riti collettivi della propria cultura d’origine in chiave del tutto originale. Lo fanno, senza teorizzazioni a priori e formalmente condizionati dai modelli mediatici che in quel tempo si chiamavano James Brown o Bruce Lee: icone rappresentate poi sull’asfalto.
Così il
cypher si auto-coagula in un “qui ed ora”. Fisicamente rimane il cerchio, che delimita, tuttavia senza marcarlo mai, il confine fra spazio estetico e spazio sociale (la cui unione potrebbe chiamarsi “spazio hip hop”). Le persone, attori-spettatori, sono i globuli rossi di questo organismo: insieme formano un flusso, singolarmente sono portatori di vita. E la propria esperienza di vita si materializza in uno stile (per chi balla) e in gesti, grida, espressioni (per chi osserva). Ma nel cerchio ogni ruolo è intercambiabile, e come in un
ipertesto, un elemento può essere contemporaneamente un testo e un
link, un significato e un significante. E non finisce qui, perché come un incenso spirituale, troviamo la musica, arte maestosa e ambigua, che aggiunge un altro moto al sistema. Il dj, quello Hip Hop, è il demiurgo delle selezioni: da un insieme finito di breaks crea un sistema infinito di
choc, che come un’onda d’urto si diffondono fra la gente. Dal vinile al Serato, l’inconfondibile presenza della macchina-oggetto è stata l’interfaccia del dj, sciamano urbano,
tecnocrate dell’istinto.
Non c’è giudizio che tenga, si procede per emozioni e il cerchio si allarga o si stringe come muore o cresce una colonia d’insetti. Si noti bene la proporzione: stringe/allarga = cresce/muore. Quando il cerchio si fa piccolo e si sgomita per entrare, è segno che il limite fra chi guarda e chi balla, vacilla. Paradossalmente, il miglior cerchio, sarebbe il
non-cerchio: "Spazio Hip Hop" assoluto.
In questa continua alchimia, il termine “ballare” può sembrare riduttivo ma è importante notare che dietro a questo fenomeno c’è una pratica quotidiana. Ho detto pratica come sono pratici e pragmatici gli ostacoli della vita. In questa pratica giornaliera al breaking, i b-boy parlano sempre di “allenamento” e mai di “studio”. La tecnica, che esiste e va interiorizzata alla perfezione, è il passaporto formale per lasciarsi andare una volta entrati nel cerchio. Siamo di fronte ad una disciplina del corpo che pone dei “muri tecnici” non come ostacoli bensì come punti di riferimento per riflettere le onde radar della nostra espressione. Il
cypher è veramente una reinterpretazione contemporanea del cerchio rituale delle tribù africane, proprio integrando una forma a priori (la preparazione del rituale nelle tribù, imparare la tecnica nei b-boy) con un effetto a posteriori (l’aiuto della divinità, l’espressione personale condivisa).
Quando il cerchio si spegne, probabilmente portiamo a casa una t-shirt sudata e un ricordo da sfogliare come una raccolta: ogni entrata è stata una poesia, un componimento libero; un riflesso di ciò che eravamo, un oracolo per ciò che saremo.