Mentre l’emergenza Covid-19 ha scoperchiato un vaso di pandora fatto di precarietà, disuguaglianza e vuoto politico, molte/i street dancer come noi hanno continuato a ballare in tha house, condividendo mosse, musica e knowledge sull’unico spazio d’incontro possibile: il web. Spostavamo il divano per ballare, e ci risaltavamo sopra per visualizzare, condividere, commentare e - perché no! - svolgere qualche lezione on-line per arrangiarci in qualche modo di fronte a questa inaspettata fase storica. Bene, direi. Ma non benissimo.
Ce lo dice la nostra memoria muscolare. Durante il sonno ci agitiamo, convinti di rivivere quelle spericolate notti di festa, quando si ballava pressati l’un con l’altro e una voce gridava «Allargate il cerchio!». Un anatema per molti breaker, a proprio agio negli spazi angusti, ma anche il segnale per lanciare il giubbino a terra, disinnescare i pudori, sudare e danzare fino allo sfinimento. Destati dal sonnambulismo, ora che le misure restrittive sembrano allentarsi, "allarghiamo il cerchio" potrebbe essere lo slogan per immaginare nuove forme di ballo, festa e sfida, all’interno di una scena che deve necessariamente riaprire le porte allo spazio pubblico, ma anche abbattere le sue muraglie immaginarie verso il pubblico. Che effetti ha avuto la quarantena sulla nostra voglia di fare cerchio? Cosa ci spaventa? Ballare in sala o per strada?La strada.
Ve la ricordate, sì?
Ballando Tehran, documentario che racconta il fenomeno delle "danze virali" scatenate in Iran dopo l'arresto di una ragazza accusata di aver «ballato su Instagram». #dancingisnotacrime
Ora, in condizioni diverse ma comuni, anche per noi è giunto il momento di allargare gli orizzonti e ripensare al senso profondo delle nostre danze. Perché se i social sono stati fin’ora il mezzo, quale sarà il fine? Se non troveremo uno scopo urgente e alternativo al puro sfoggio di stile, le nostre performance potrebbero trasformarsi in un languido canto del cigno. Ben altra cosa rispetto alla dura realtà, che ti grida «Smetti di cazzeggiare e trovati un lavoro!», ma che in questa sede, vi invito a mettere per un momento fra parentesi.
A 36 anni suonati, come b-boy, intravedo nel dramma di questa crisi l’opportunità per riscoprire insieme un nuovo senso sociale, culturale e politico del “danzare in strada”. “Sociale”, perché ci allena a rimanere uniti attraverso le diversità (risolverla nel cerchio, piuttosto che sulla tastiera, è sempre stato meglio!); “culturale”, perché è un linguaggio che si alimenta dal basso ed è orizzontale («Each one, teach one!»); “politico”, perché ci insegna a reagire a tempi e spazi imposti dall'alto (quelli del ghetto prima, quelli dell'emergenza ora). Basta una cassa stereo e un paio di sneaker: tutta la danza, non solo quella urbana, nasce così: come arte povera e di comunità. Non a caso, da due decenni si parla dei bei tempi andati della cultura di strada che mai e poi mai ritorneranno. «Bene!», rispondo ora ai nostalgici, «se non ora, quando?».
«Fare o non fare: non c'è provare!» Mc Yoda from Star Wars crew ;-) |
Riscoprire e praticare le radici sociali della danza di strada all'interno delle normative, sarà la sfida dei prossimi mesi, ma non saremo i soli. Nel mondo, esperimenti di solidarietà e cittadinanza attiva che, pur nelle norme, provano a disinnescare i meccanismi discriminanti e incoerenti delle misure emergenziali. Una serie di provvedimenti che, ricordiamolo, deve “servirci” non “asservirci”.
Srotolare il linoleum: non è la soluzione al tutto, ma un'alternativa al niente. |