lunedì 14 marzo 2016

Facciamo un po' come cazzo ci pare: un racconto sull'irresistibile ascesa della Street Art


“Sull’acciaio, sul muro lascia tracce di colore come un codice,
il concetto che ti è estraneo rende il tutto più difficile,
il disegno è complicato come un puzzle da tremila pezzi
se vuoi capire tocca che li incastri tutti”.

Kaos, I fieri bboyz (1996)




Roma, quartiere San Lorenzo, 2016, ore 04:46.

“È un centro sociale, ognuno fa come je pare”. La risposta batte sulla nuca, come una secchiata di colla bollente che aderisce al derma e corrode. Il tizio sorride mentre la sua tag gocciola sulla porta a vetri dell’ “aula studio autogestita”, così recita lo striscione. Il tizio infila le mani in tasca, si tuffa nell’anonimato della bolgia, scompare. Resta il suo nome, latteo e indelebile: PRAY. “Chi cazzo è stato?”, sbiascica Gianni. Ma c’è un’altra sorpresa: una parete della sala grande completamente riempita di scritte. PRAY PRAY PRAY: ad libitum. “Come hanno fatto ad arrivare fin lassù?”, sbotta Roberta, “Devono essersi arrampicati uno sull’altro!”, interviene Corrado, “Non si può andare avanti così! Ora gli facciamo ripulire tutto!”, interrompe Clara sbattendo la mano sulla serranda, “Vabbè siamo un centro sociale mica in un penitenziario”, osserva Carlo stizzito, “Calma, Calma!”, ammonisce Francesca, “Mettiamo il punto all’ordine del giorno e ne discutiamo!”, “Ma quale punto?”, replica Riccardino, “Quello m’ha detto che siamo in un centro sociale e ognuno fa come je pare! Machecazzovordì?”. Luca scavalla le gambe e ammonisce, “A Riccà, è pure vero che sto posto è stato liberato, e libero ne rimane l’uso per tutti e tutte!”. “Ah sì?”, Riccardino si alza, slaccia la cintura e cala a terra i pantaloni, “cioè pe ditte: so pure libero de cacà pe’ terra?”.



Roma, quartiere Garbatella, 2016, ore 17:15.

Stretta di mano solida, come quella che ti ha insegnato tuo padre. “Sii fiero di te stesso”, figliolo. L’assessore rivela un sorriso smaltato dietro agli abiti finto-casual, mentre uno storno di flash pilucca il gigantesco murales, il tuo murales, che troneggia aldilà della strada. Sei davvero fiero? Hai trentatré anni e ce l’hai fatta. Campare della tua passione, girare il mondo, portare la bellezza nei quartieri popolari: tu, caro mio, tu ri-qua-li-fi-chi. L’assessore: “Oggi il museo a cielo aperto di Garbatella si arricchisce di una nuova opera!”. Forza, sfìlati i guanti sporchi di arancione e applaudi a tutte quelle solenni stronzate, incondizionatamente. Sii fiero, perché se a quest’ora spingevi solo hardcore, anziché quella del sindaco avresti stretto la mano del fruttivendolo che si congratulava con te per avergli dipinto la serranda. E poi di corsa in ufficio ad impaginare volantini del cazzo per paninoteche del cazzo. A fare la figura del pulciaro nei bistrot dei musei, perché otto euro per uno spritz è un furto. A fare a gara a chi ce l’ha più lungo, devastando i finestrini dell’interregionale. Dicevano che voi writer dovevate organizzarvi, beh: ti sei autorganizzato: capo di te stesso.


Ma è proprio l’autorganizzazione del “facciamo un po’ come cazzo ci pare!”, quella più drammaticamente collusa alla filosofia del neoliberismo avanzato. Il centro sociale, come la casa delle libertà.

Due anni fa a New York, patria del graffiti writing, si inaugurava la mostra “City as Canvas”, la città come una tela: un’idea depotenziata quanto ipocrita dello spazio urbano dove si pensa che tutti abbiano la libertà di lasciare la propria impronta quando chi ha il potere di cancellare o “restaurare” quell’impronta sono sempre i soliti. Qual’è la differenza fra autonomia e imprenditorialismo? Fra individualismo e stile? Fra open source e bene comune? Un crinale di opposizioni irriducibili su cui l’intera cultura underground si muove e su cui le teorie dei sistemi dinamici impartiscono la nuova metafisica. Se è vero che ogni rete tende nel tempo a raggiungere una certa forma di auto-equilibrio (tutti i nodi saranno interconnessi fra loro), questa “lettura”, se applicata in modo normativo, non fa altro che riattualizzare il vecchio concetto della “mano invisibile del mercato”. I nuovi scienziati dicono che fare rete, universalmente, risolverà tutto. Ma come si costruisce questa rete?

Il sistema di auto-regolamentazione dei writer, come ci ricorda Matt Mason, rappresenta un modello ante-litteram di “copyleft”. Anziché basarsi su un sistema rigido di regole e multe, l’autorganizzazione del writing passa attraverso il riconoscimento dei crediti altrui, il mantenimento del prestigio e del rispetto, la produzione di stili personali e di comunità. Tu fai una tag? Io faccio un pezzo! Tu disegni delle frecce? Io disegno una corona! Originally original. Eppure questo sistema non è privo di conflitti interni e nella storia del writing la violenza non è stata esercitata solo a livello politico e giuridico ma anche auto-organizzata, attraverso l’opera di quelle crew che praticavano e praticano forme di supremazia visuale e fisica nei confronti di altre. Dipingi nella mia zona? Ti vado sopra. Insisti? Ti gonfio di botte. Faccio un po’ come cazzo mi pare.



Roma, quartiere San Lorenzo, 2016, ore 04:20 (del giorno prima).

Se questo posto fosse un ring, il rum che servono sarebbe il culo di André the Giant che si schianta sul tuo stomaco. E lo fa esplodere.

Serata di merda, non c’è che dire. Aste, Rako e Blec ti avevano convinto a tornare in yard per colpire un altro paio di vagoni della metro. Roba nuova di zecca, roba da devastare all’istante. Voi della P.B.P., Pane Burro e Panbagnato, avevate una reputazione da difendere sulla linea A. Ma la pittata era andata male: Aste era a corto di bombole, Rako era in scazzo con la donna e Blec: Blec era ubriaco fradicio. “Ok, voi due spizzate le guardie, io e Aste bombiamo tutto fino all’ultima goccia”. Ci state? Ci stiamo. Scavalcare la recinzione, calarsi lungo la discesa che porta al deposito e trovare il vagone giusto sarebbe stata un’operazione da pochi minuti. Se non fosse stato per Blec. “Mi fermo a pisciare e vi raggiungo”, disse dopo aver scavalcato rozzamente la recinzione. Pochi secondo dopo, mentre affrontavate cautamente il pendio, venivate sorpassati da una sagoma nera: era Blec, che con l’uccello ancora in mano e funzionante, ruzzolava incosciente verso i binari. “No regà, io co’ sta busta de piscio non dipingo”, Aste dava forfait, Rako prendeva la palla al balzo per tornare con la coda fra le gambe dalla donna. Io mi accollavo Blec e lo portavo in questo centro sociale a San Lorenzo: lui a smaltire la bronza, io a cercarla.




New York, Porto di Staten Island, 1983 ore 05.45.

Un lungo vagone bianco è sospeso in aria a 10 metri di altezza. Una selva di nasi all’insù. Il serpente di metallo che oscilla gravemente, lo staff che dice di fare attenzione. Qualche fotografo, le prime luci dell’alba. Il sindaco Koch ha voluto assistere personalmente all’arrivo dei nuovi vagoni ordinati dal giappone. Entro la fine dell’anno farà piazza pulita dei writer, dei graffiti e di tutti quei bohemien del cazzo che dicono che si tratti di “arte”. La MTA, la Metropolitan Transportation Authority, aveva circondato i depositi con un doppia fila di reticolato spinato, lo stesso che i marines utilizzavano in Vietnam. A sorvegliare il corridoio di mezzo: cani lupo. Una sua idea, alla faccia di chi l’aveva preso per pazzo. “Metti il tuo segno sulla società, non nella società…ehm, voglio dire, per la società. Insomma avete capito…”. Il nuovo slogan della campagna anti-graffiti non funzionava, bisognava attuare metodi drastici per spazzare via quei teppisti da strapazzo. Reagan aveva tolto i fondi federali, il Bronx era una giungla e gli investitori guardavano altrove. Altro che slogan, nossignore. La città aveva bisogno di ordine, ordine e disciplina.



Roma, Galleria La Medusa, Novembre 1979.

“Let’s do this, Fab”, disse così Claudio, “Let’s do this!”.
Frederick “Fab 5 Freddy” Brathwaite, afroamericano di Brooklyn, aveva strizzato l’occhio alla pop art disegnando i barattoli della zuppa Campbell su un treno della metropolitana. Il suo collega portoricano, George “Lee” Quinones, aveva iniziato ad aggiungere contenuti: “if art is a crime let God forgive us all”. A febbraio era uscito un articolo sul Village, downtown era in fibrillazione. Si diceva che anche Andy Warhol avesse rizzato le antenne. Passare dai treni ai muri, dai muri alla tela: l’operazione cambiava radicalmente le regole del gioco. Anzi, creava il gioco stesso. Gli altri writer continuavano ad incontrarsi alla fermata della metro di Grand Concourse. Scambiavano bozzetti, raccontavano storie, litigavano su chi aveva inventato cosa. Fab aveva preso una tela, ci avevamo scritto sopra e l’aveva appesa al muro. Uno, due, tre passi indietro. “Capisci, Lee?”, aveva detto all’amico, “I graffiti sono l’arte del futuro”. Dopo l’intervista al Village, fioccarono nuove esposizioni, nuovi vernissage. Claudio Bruni, un gallerista italiano, era rimasto folgorato. Aveva comprato un paio di tele, ne aveva commissionate altrettante, poi la chiamata: “Let’s do this Fab: let’s bring your art in Italy”. Fab e Lee volavano in Italia, la culla delle belle arti. Proprio ora guardano il litorale laziale da un finestrino a diecimila metri dal suolo. Eccoci Europa: la graffiti art sta per atterrare.




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