il concetto che ti è estraneo rende il tutto più difficile,
il disegno è complicato come un puzzle da tremila pezzi
se vuoi capire tocca che li incastri tutti”.
Kaos, I fieri bboyz (1996)
Roma, quartiere San Lorenzo, 2016, ore 04:46.
“È un centro sociale, ognuno fa come je pare”. La risposta batte sulla nuca, come una secchiata di colla bollente che aderisce al derma e corrode. Il tizio sorride mentre la sua tag gocciola sulla porta a vetri dell’ “aula studio autogestita”, così recita lo striscione. Il tizio infila le mani in tasca, si tuffa nell’anonimato della bolgia, scompare. Resta il suo nome, latteo e indelebile: PRAY. “Chi cazzo è stato?”, sbiascica Gianni. Ma c’è un’altra sorpresa: una parete della sala grande completamente riempita di scritte. PRAY PRAY PRAY: ad libitum. “Come hanno fatto ad arrivare fin lassù?”, sbotta Roberta, “Devono essersi arrampicati uno sull’altro!”, interviene Corrado, “Non si può andare avanti così! Ora gli facciamo ripulire tutto!”, interrompe Clara sbattendo la mano sulla serranda, “Vabbè siamo un centro sociale mica in un penitenziario”, osserva Carlo stizzito, “Calma, Calma!”, ammonisce Francesca, “Mettiamo il punto all’ordine del giorno e ne discutiamo!”, “Ma quale punto?”, replica Riccardino, “Quello m’ha detto che siamo in un centro sociale e ognuno fa come je pare! Machecazzovordì?”. Luca scavalla le gambe e ammonisce, “A Riccà, è pure vero che sto posto è stato liberato, e libero ne rimane l’uso per tutti e tutte!”. “Ah sì?”, Riccardino si alza, slaccia la cintura e cala a terra i pantaloni, “cioè pe ditte: so pure libero de cacà pe’ terra?”.