Fine
monologo teatrale
Compagnia Ragli
Regia: Rosario Mastrota
Interpreti: Luigi Iacuzio
In questi giorni va in scena Fine, monologo teatrale della Compagnia Ragli scritto e diretto da Rosario Mastrota e interpretato da Luigi Iacuzio. Finalista nel 2010 di numerosi premi teatrali (Dante Cappelletti, Cantieri Opera Prima del Metateatro, Controscene), lo spettacolo ha inaugurato la sua turnè il 26 Gennaio al Teatro della Sirena di Castrovillari e proseguirà il 29 e 30 al Teatro del Grillo di Soverato, e dal 4 al 6 Febbraio al teatro San Carluccio di Napoli. Ospiti del Kollatino Undergound, nel cuore gelido di Roma, abbiamo assistito alla prova generale prima della "grande fuga" verso la turnè meridionale. Check this out!
Applausi scroscianti e doccia bollente. Giusto un attimo per soffocare l'ultima sigaretta e si torna alla realtà: "Mi chiamo Gino e faccio l'attore" - e non ci sono applausi che reggano. Sono passati circa 30 anni da quando Gino imitava il mitico Clint indossando la coperta della nonna come poncho. Nulla è cambiato. Ci sono le star, c'è suo padre e c'è lui che recita di fronte a uno schermo. Rosario Mastrota e Luigi Iacuzio mettono in scena il tragicomico requiem del mestiere-attore. Lo fanno in maniera brillante, affastellando immagini, collezionando gag e smarcandosi dal mugugno made in italy. La generazione di Gino non è quella degli ultimi, ma quella di chi è ancora in attesa di partire, e mai partirà. Per assaporare la "Fine" di Mastrota e Iacuzio c'è bisogno di immaginazione, la stessa che riempie il buco fra Arte e artigianato, fra passato e presente, fra lo spazio e la scena. Si perchè l'attore si confronta prima di tutto con un immginario: è grazie ai film di Clint che in Gino nasce la passione di recitare, e per tutta la vita cercherà di sfondare, entrare in quell'olimpo mitologico in cui solo "1 su 1000" merita di apparire. Prima o poi, prima o poi ci riuscirà, deve riuscirci perchè ha studiato, e non si è improvvisato come gli altri. La pelle di Luigi Iacuzio si dilata, si contrae e materializza quel triangolo perverso fra soggetto, società e immaginario di lacaniana memoria.
Ecco perchè Fine è brutalmente realistico. Qui non troverete la scontata critica alla società dell'apparenza (oggi un clichè a doppio taglio che finisce col supportare l'ideologia vigente). Qui la morale non è che "fra il dire e il fare...". Il dramma di Gino è che l'attore lo fà, e proprio per questo, sente di non esserlo. Per farlo, si abbandona l'illusione del meta-teatro e ci si rivolge piuttosto allo straniamento brechtiano e al "discorso performativo" (in tutta la prima scena, l'attore dice ciò che si appresta a fare). Anche nella forma, Fine è coerente con il contenuto: poichè non possiamo semplicemente tirarci fuori dal sistema-spettacolo (nè da quello teatro), il protagonista descrive minuziosamente quello che si accinge a compiere. Sullo stesso piano si colloca l'analoga critica ideologica: invece di indignarsi e dire "io non faccio parte di questo mondo" bisognorebbe accettare il fatto che ne siamo tutti parte (magari col ruolo di "nemesi") e da qui, muovere una critica che guarda per un attimo "dal di fuori".
La generazione di Gino non è quella del "lavoro mai", ma del lavoro "prima o poi" e per questo perennemente in un non-luogo esistenziale. Per esorcizzarlo a volte basta una risata, a volte no. "Mi chiamo Gino e faccio l'attore" - e non ci sono applausi che reggano.