martedì 9 luglio 2013

Far respirare l'Hip Hop: Breakdance, Cinema e Bene Comune


Si può vivere di solo Hip Hop? Internet è utile alla scena? Che c'azzecca la breakdance con Amici di Maria? Ma soprattutto: «Cosa resteraaà, di quegli anni ottantaaa?!» - Pardon. Questi e altri, i dilemmi parzialmente snocciolati nell'ultima domenica di giugno presso il Communia di San Lorenzo in compagnia di dj Ice One, mc Shark, Amir e il sottoscritto. Il pretesto è stato offerto da Giulia "Chimp" Giorgi, autrice e organizzatrice di 1 World Under a Groove, un documentario sul mondo della breakdance girato a Roma durante un progetto di scambio fra crew provenienti da Italia, Marocco, Francia, Polonia e Tunisia. La proiezione del breakumentary è stata l'occasione per mappare il percorso e i possibili sbocchi della scena italiana e internazionale. 

Il documentario è un tuffo nel microuniverso del breaking euro-mediterraneo. Bboy e bgirl ballano e si raccontano: c'è chi oltre a ballare studia o dirige una fanzine, chi gira il mondo per rappresentare il proprio paese, chi cerca un'indipendenza, chi ricorda la guerra e chi lotta ancora con la società o la propria stessa famiglia per affermare l'autenticità della propria passione. Storie a fiotti, sempre diverse e spaventosamente simili. Che sia stata una donna ad a prendere l'iniziativa di mostrarle, non è da sottovalutare. Quelle dei ragazzi di 1 World, come quelle di Ice One e Shark, sino al gioco di aneddoti sulla "nuova scuola" fra me e Amir, sono le bollicine di un brodo primordiale che rischia l'estinzione. Ma c'è davvero interesse nel raccontare e ascoltare queste storie? Della "scena romana" ci sono solo una manciata di rappresentanti, fra questi una bgirl, e per una volta il rapporto uomo/donna supera la soglia del 1/5 (secondo una mia personale statistica, normalmente nel breaking italiano è di 1/200 per i masculi, sic!).




Flashback, pomeriggio - Nel cortile del Communia i pannelli iniziano a prendere colore. Una manciata di writers, fra cui l'amico Gojo, si gode il clima ancora mite, mentre le "regole del buon vicinato" costringono dj's e breaker a barricarsi all'interno del teatro. Affianco Ice One, mi presento, "massimo rispetto, era da tanto tempo...", usciamo a prendere una boccata d'aria. Qualche minuto dopo, in compagnia di Shark, Leva57 e altri afecionados, il cortile dell'ex-fonderia Bastianelli si trasforma nell'arena della memoria. Ricordare tutto è impossibile: affiorano aneddoti, immagini e tante persone, luoghi, suoni che non torneranno ma che suscitano lo stesso emozione. Un collegamento, un philum culturale fra old & new ancora esiste: Ice One è pacatamente determinato a raccontare le origini della scena, gli scazzi, le rocambolesce avventure per partecipare ad un evento o conoscere un personaggio. Il philum esiste, seppur segmentato.

Dopo la proiezione, dopo le testimonianze dei ragazzi e delle ragazze del film, sembra non ci sia bisogno di aggiungere altro e invece parte un grande flusso di coscienza collettiva, da cui ho capito cose e ribadito altre:
 
- L'hip hop è qualcosa che si modella nello spazio/tempo: per alcuni è stile di vita, per altri strumento di lotta, per altri ancora lavoro e piacere contemporaneamente. Lo scontro di queste attitudini genera una vera e propria "macchina da guerra" (Deleuze/Guattari);

- Il breaking (breakdance) è una in-disciplina. Non ordina attraverso messaggi verbali, bensì produce strappi simbolici e lo fa tramite la sua stessa forma che coinvolge spazialità, temporalità, socialità e corporeità della comunità metropolitana. Tutte queste categorie, e il breaking stesso, sono assimilabili al concetto di "bene comune".

- C'è bisogno di fare un archivio della cultura hip hop italiana. Non un mèro spazio di stoccaggio, bensì un vero e proprio luogo di "formazione e trasformazione degli enunciati" (Foucault) della scena. Cosa vuol dire? Creare eventi come quelli al Communia, dove la produzione di oggetti culturali (film, libri, mostre, album etc.) sia finalizzata alla formazione di relazioni, riflessioni, azioni fra personaggi e comunità eterogenee.

Far respirare l'Hip Hop:
il compito di tre generazioni.

6 commenti:

  1. La "cultura" hip hop, ora più che mai, ha bisogno di ritrovare la propria dignità. In Italia, diverse sono le occasioni di confronto ma se parliamo di territorialità è proprio in questo che la cultura vede gli ostacoli più grandi. Oggi possiamo dire che le barriere sono state abbattute con l'avvento del web, ed i dialoghi sono on/off al pc: ma è proprio questo che vogliamo? Credo che sia molto limitativo per tutte le discipline. Un approccio passivo e alquanto distaccato da quelle che erano le atmosfere delle vecchie jam. Concordo per la creazione di archivi culturali, veri e propri Urban Center HH, dislocati in diverse parti d'Italia, che possano farsi carico di tutto quel materiale storico e storicizzato della old school e permettere un'evoluzione più sana e costruttiva della trasformazione culturale dell'hip hop made in Italy.
    Antonella Caponnetto

    RispondiElimina
  2. Qui sfondi una porta aperta ;-)

    L'hip hop deve respirare ed essere vissuto come un territorio urbano della memoria, con le sue piazze, le tradizioni dei vari quartieri, i ponti e i sottopassaggi che scambiano storie con altre città. Dobbiamo continuamente de-territorializzarci direbbero Deleuze e Guattari, con una piccola precisazione: poichè l'hip hop è nato in nome della *dispersione* (il breaking come dispersione dei corpi, il writing come dispersione delle lettere, il djing come dispersione e ricomposizione delle sonorità, il rap come dispersione delle strutture poetiche ecc.) questo non significa che non ci debbano essere strategie per la preservazione e la guida dei flussi culturali.

    Oggi più che mai c'è bisogno di spazi e tempi per la memoria, che non significa e non deve ridursi in *nostalgia* bensì in rilancio originale del philum che collega le varie comunità in un multiforme movimento che, a differenza di altre subculture anni 60 (punk, hyppie, beat) è riuscito a rinnovarsi e rimanere un fenomeno attualissimo.

    Come realizzare tutto ciò? Una domanda che richiedere una risposta assolutamente collettiva.

    RispondiElimina
  3. L'HipHop sopravvive e si rinnova proprio grazie alla sua anarchia e libertà. Ci sarà sempre chi cercherà le origini e chi non lo farà. Secondo me l'unica cosa da fare e riuscire a connettere le persone che ricercano le origini e lavorano per l'archivio di esse. Creare degli archivi web per tutti e se c'è la possibilità anche fisici. Che poi già raccogliere le informazioni non è così semplice come si pensa. Noi come crew stiamo cercando tramite interviste di ricreare il filo logico e la storia HipHop del nostro paese "Bassano del Grappa" e abbiamo trovato tante porte chiuse, non è detto che tutti abbiano la voglia di condividere il loro passato con i più giovani. Pace

    RispondiElimina
  4. Sì Smog hai perfettamente ragione, e sono convinto che con la giusta apertura mentale e disinteresse economico, riusciremo anche ad elaborare un processo interpretativo efficace. Come notava Derrida, la cancellabilità delle tracce rende possibile il loro uso. Un archivio che voglia ricordare "tutto" o si sforzi di custodire "le origini" è destinato a fallire nel lungo periodo.

    Ecco perchè la conoscenza di qualcosa è sempre interpretazione di qualcosa (filosoficamente: un'ontologia è sempre un'ermeneutica) e deve avvenire attraverso una molteplicità di punti di vista: dalla testimonianza diretta degli old school, agli studi sul contesto storico-culturale, al rapporto con l'immaginario, i media, il sistema socio-economico, ecc.

    Non è che senza passato non esiste futuro. Al contrario: senza uno sguardo "incredibile" sul futuro, non potremo creare nessuno sguardo "credibile" sul passato.

    RispondiElimina
  5. Scusatemi, che brutto però il termine "archiviare", mi fa venire in mente un discorso chiuso o un oggetto di discussione non più riaffrontabile. Userei una altra parola. La testimonianza verbale, come quella visiva o musicale, ha ben altro impatto a mio avviso. Questi cosiddetti archivi dovrebbero essere l'accompagnamento di forme concrete ben più efficaci, come quelle che vi ho appena detto prima. Si rischia altrimenti di creare una sterile, noiosa e male-interpretabile serie di concetti che, anche se raccolti con le migliori intenzioni, risulterebbero magari anche controproducenti.

    RispondiElimina
  6. "Archivio" è invece la parola giusta! :-)

    Se leggi bene ho scritto che esso "Non un mèro spazio di stoccaggio, bensì un vero e proprio luogo di "formazione e trasformazione degli enunciati" (Foucault) della scena." Con "enunciati" Foucault non si riferisce semplicemente alle parole o ai concetti, ma ai processi e i protocolli che stanno alla base della trasmissione di essi. Potremmo dire che il "footwork" è un enunciato che regola i passi a terra di un bboy/bgirl, mentre lo "scratch" è la piattaforma sonora entro cui suonano i dj ecc. L'Hip Hop in questo senso diventa un "discorso", una strategia complessa e dinamica fatta di diversi "enunciati" (footwork, scratch, rime, flow, lettering ecc.) che hanno una relazione forte uno con l'altro.

    Archiviare quindi non significa accatastare enunciati, ma al contrario farli "re-agire" fra loro (nell'accezione di reazione chimica e reazione ad un'azione). Foucault tentava di dire questo, che noi archiviamo quotidianamente la nostra esperienza ma solo se l'archivio rimane uno spazio ventilato e aperto sul mondo, possiamo garantirne l'efficacia.

    Senza selezione non c'è memoria, mentre una memoria che pretende di ricordare tutto è destinata all'oblio.


    L'Hip Hop è un discorso

    RispondiElimina

Ricordati di firmare il tuo post.
I commenti anonimi non saranno pubblicati.
Peace.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...