lunedì 7 luglio 2014

True Detective con filosofia: «Listen, Nietzsche, shut tha fuck up!»

True Detective non è fenomenale: è fenomenologica...Se  non avete ancora lasciato il sito, siete ben equipaggiati per affrontare un viaggio che ci porterà ai confini della nostra coscienza, dove incontreremo forme d'intelligenza emergenti, fisarmoniche temporali,  titillamenti esistenziali, etici, politici e svariati link demenziali attorno a questa miniserie senza precedenti targata HBO.

Da capo: True Detective non è fenomenale: è fenomenologica (i) in quanto noir (detective-deve-risolvere-delitto-ma-ne-rimane-co-involto); (ii) in quanto riflette sull'Io (cosa si prova ad essere me e perché ne ho coscienza?). Il famoso aforisma di Cartesio cogito ergo sum (o forse si trattava di Carlo Cracco?), non significa solamente che il pensiero è il fondamento della coscienza, bensì implica che non può esistere coscienza (res cogitans) senza esperienza empirica (res extensa). Corpo e mente hanno rapporti educatissimi: nessuno "trascende". Ma se mi chiedete di interpretare "filosoficamente" i dialoghi vernacolari dello sceneggiatore Nic Pizzolato, la mia risposta sarà la stessa di Rust Cohle (Matthew McConaughey):«Listen, Nietzsche, shut tha fuck up!». Poiché di perle di saggezza ne è pieno il mondo (cioè Facebook), qui la filosofia non la interpretiamo, ma la facciamo succedere attraverso immagini, suoni e, d'accordo, una piccola dose delle suddette perle.
Ma procediamo per ordine, cioè random.



La prima cosa che mi ha convinto del giovane regista anglo-nippo-svedese Cary Fukunaga (oltre la coerenza del nome), è stata questa inquadratura:


Durante il secondo episodio, ci imbattiamo in uno stormo di uccelli che per un istante assume la forma del simbolo a spirale che segna le tracce del delitto. Abbinando un cambio di focale ad un leggero carrello laterale, quello che fino a pochi istanti prima era derubricato sotto la voce "sfondo" (cioè oggetto) assume brevemente una valenza significante. Allegoricamente il passaggio di attenzione dalla coppia di detective in primo piano allo stormo, rinvia all'estensione del sistema pensante: da una concezione cervello/umano-centrica ad una ecologica/oltre-umana. Allo stesso tempo, la struttura volatile dello stormo (nella doppia accezione di somma dei voli dei singoli uccelli e di organizzazione imprevedibile) offre un indizio sulla relatività della risoluzione dell'enigma e del senso che (eventualmente) essa potrà assumere. Si stima che il movimento direzionale di uno stormo di uccelli si diffonda nell'ordine di un settantesimo di secondo, mentre il tempo di reazione di un singolo uccello è di molto inferiore. In poche parole, l'organizzazione non-centralizzata e in-cosciente dello stormo, "ragiona" e agisce molto più efficacemente del singolo uccello. 


Questa magia è anche alla base del funzionamento della nostra coscienza: la multimodalità dell'esperienza genera una moltitudine di processi neuronali paralleli che - come nel caso dello stormo - producono un movimento omogeneo e più efficace della somma delle loro parti. Questo movimento è generalmente chiamato "flusso di coscienza", ma a ben vedere, non è un vero e proprio flusso unitario ma una sorta di baricentro fluttuante della lotta cognitiva che investe cervello, corpo e ambiente (tié!). Il dilemma di Rust sulla natura del delitto non è mentale, bensì ecologico. Le sue sparate darwiniano-nichiliste (sbeffeggiate a tempo di record da At&T e Jimmy Kimmel & Seth Rogen), si svolgono in macchina, dispositivo di visione più che di locomozione, richiamandoMi la teoria di Jean-Paul Sartre per cui un'immagine non è un oggetto all'interno della coscienza, ma è la coscienza stessa. Analogamente, durante queste lezioni di filosofia senza cintura di sicurezza, zio Rusty svarionerà non poco, e noi spettatori con lui (v. immagine).


I paesaggi padani della Louisiana infatti si appiccicano ai corpi-mente dei personaggi, a partire dalla sigla che detronizza in un sol colpo quella di Dexter e American Horror Story. Lavorando con una tecnica d'animazione ispirata alla doppia esposizione fotografica, i paesaggi vengono incastonati nella silhouette dei personaggi (e  viceversa) mentre le note di Far from any road (un nome, un programma) potenzia l'effetto di armageddon esistenziale che pervade tutta la serie. Dal momento che il nostro stato di coscienza è generato da un pandemonio di micro-eventi singolarmente stupidi (come gli uccelli dello stormo), la centralità della figura e del volto della persona perde consistenza e si immerge in un sistema cognitivo distribuito nello spazio-tempo. O, per dirla in accademichese: la viseità si fa paesaggio; il Sé, il petrolchimico della mente.



Se a parole si insiste sino ai limiti del didascalico sul concetto di eterno ritorno di Nietzsche, ma sul piano delle audio-immagini, la serie ci racconta tutt'altra filosofia. I personaggi cambiano fisicamente, le storie vengono riscritte e i tempi continuamente contratti, allungati, plissettati. Come sappiamo, la vicenda si articola fra il 1995 e il 2012, quando i due poliziotti vengono interrogati riguardo al vecchio caso del "Pietro Pacciani" della Louisiana. Come nella tradizione del cinema noir degli anni 40, salpiamo per un lungo flashback. Tuttavia il ricordo è co-narrato da più personaggi e rivela (come ci si aspetta) una certa dose di discrepanze, punti ciechi e faccende in sospeso che alimentano il ragionamento e il piacere del fan, o del follower. Il ricorso all'embedded narrative, ovvero il racconto nel racconto, non illumina il passato dei personaggi, bensì lo crea. L'inquadratura dei detective si raddoppia nel monitor della telecamera dell'FBI che registra le loro testimonianza, così come i segni del Male si incasellano nell'ambiente, fino quasi a risucchiarlo in un buco nero. La memoria personale, quella che contribuisce a creare l'illusione di Sé, non è "di sola lettura": essa è continuamente modificata e rinegoziata nell'atto stesso dell'accesso. La voce over del personaggio narrante spesso stride con il flusso delle immagini che a loro volta spesso fluttuano disancorate da qualsiasi sguardo soggettivo o dimensione narrativa.


Questo, come dicevamo, si riflette sulla sfera temporale. L'arco narrativo di True Detective è imbevuto di temporalità molteplici: quella del monologo in prima persona attraverso inquadratura fissa, quella dei lenti movimenti di macchina abbinati a lunghi silenzi, quella degli spazi apertissimi, delle focali lunghissime (v. immagine) e quella dell'ormai celebre piano sequenza di 6 minuti, che ci fa rimpiangere di non avere un joypad sotto mano e manovrare "l'avatar" di Rust.



Quest'ultimo espediente riflette la tendenza nei contemporanei videogame mmorpg a mischiare il gaming al watching attraverso punti in cui l'interazione del giocatore determina il ritmo degli eventi "narrativi". In gergo: ludonarrativa. L'interpretazione e il modellamento della mente umana si è storicamente basata su metafore legate ai media ottici (dalla lanterna magica alla realtà virtuale) e l'innervazione simbiotica fra organismi biologici e artificiali, come tra forme narrative e interattive, ci porta a pensare che la nostra coscienza sia un dispositivo ludonarrativo piuttosto che una camera oscura dove si manifestano cose o un videogame di cui manovriamo gli esiti. La potenza di sistemi come True Detective sta nel fatto che sia sul piano della rappresentazione, sia sul piano cognitivo, protendano per un ribaltamento ecologico del Sé, quale esistenza continuamente negoziabile e mai sovradeterminata, innestata in un network biotecnologico d'intenzionalità a-centrata e distribuita.
E poi dicono che a Roma d'estate ci si annoia.             



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