Fine
monologo teatrale
Compagnia Ragli
Regia: Rosario Mastrota
Interpreti: Luigi Iacuzio
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Applausi scroscianti e doccia bollente. Giusto un attimo per soffocare l'ultima sigaretta e si torna alla realtà: "Mi chiamo Gino e faccio l'attore" - e non ci sono applausi che reggano. Sono passati circa 30 anni da quando Gino imitava il mitico Clint indossando la coperta della nonna come poncho. Nulla è cambiato. Ci sono le star, c'è suo padre e c'è lui che recita di fronte a uno schermo. Rosario Mastrota e Luigi Iacuzio mettono in scena il tragicomico requiem del mestiere-attore. Lo fanno in maniera brillante, affastellando immagini, collezionando gag e smarcandosi dal mugugno made in italy. La generazione di Gino non è quella degli ultimi, ma quella di chi è ancora in attesa di partire, e mai partirà. Per assaporare la "Fine" di Mastrota e Iacuzio c'è bisogno di immaginazione, la stessa che riempie il buco fra Arte e artigianato, fra passato e presente, fra lo spazio e la scena. Si perchè l'attore si confronta prima di tutto con un immginario: è grazie ai film di Clint che in Gino nasce la passione di recitare, e per tutta la vita cercherà di sfondare, entrare in quell'olimpo mitologico in cui solo "1 su 1000" merita di apparire. Prima o poi, prima o poi ci riuscirà, deve riuscirci perchè ha studiato, e non si è improvvisato come gli altri. La pelle di Luigi Iacuzio si dilata, si contrae e materializza quel triangolo perverso fra soggetto, società e immaginario di lacaniana memoria.
Ecco perchè Fine è brutalmente realistico. Qui non troverete la scontata critica alla società dell'apparenza (oggi un clichè a doppio taglio che finisce col supportare l'ideologia vigente). Qui la morale non è che "fra il dire e il fare...". Il dramma di Gino è che l'attore lo fà, e proprio per questo, sente di non esserlo. Per farlo, si abbandona l'illusione del meta-teatro e ci si rivolge piuttosto allo straniamento brechtiano e al "discorso performativo" (in tutta la prima scena, l'attore dice ciò che si appresta a fare). Anche nella forma, Fine è coerente con il contenuto: poichè non possiamo semplicemente tirarci fuori dal sistema-spettacolo (nè da quello teatro), il protagonista descrive minuziosamente quello che si accinge a compiere. Sullo stesso piano si colloca l'analoga critica ideologica: invece di indignarsi e dire "io non faccio parte di questo mondo" bisognorebbe accettare il fatto che ne siamo tutti parte (magari col ruolo di "nemesi") e da qui, muovere una critica che guarda per un attimo "dal di fuori".
La generazione di Gino non è quella del "lavoro mai", ma del lavoro "prima o poi" e per questo perennemente in un non-luogo esistenziale. Per esorcizzarlo a volte basta una risata, a volte no. "Mi chiamo Gino e faccio l'attore" - e non ci sono applausi che reggano.
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