Una generazione che insieme alla nuova si raccoglierà attorno a The Get Down, il Wild Style degli anni 2k10. Assemblata nelle fornaci di Netflix dall'australiano Baz Luhurmann (Romeo + Juliet, Moulin Rouge!, Il grande Gatsby) la serie è ambientata nel Bronx degli anni settanta e racconta le vicende che portarono alla nascita del fenomeno hip-hop. Uscita lo scorso 12 agosto dopo oltre 1 anno di promozione, The Get Down apre il sipario con un episodio adrenalinico che supra i 90 minuti. La storia è corale, sebbene il plot ruoti attorno all'amicizia fra due adolescenti, Ezekiel "Zeke" Figuero, un futuro mc portoricano, e Shaolin Fantastic, una cintura nera di "stile" metropolitano. Entrambi figli delle politiche di abbandono del Bronx, presentata come una vera "babilonia in fiamme" per citare Jeff Chang, l'amicizia fra Zeke e Shao dischiude un mondo più complesso fatto di lotte territoriali, giri d'affari e rimpasti politici. Un approccio sfaccettato, che ci trasporta continuamente dentro e fuori la scena underground, e che al momento non celebra nessuna "leggenda" ma semmai ne ipotizza e traccia di nuove. E' il caso di Shaolin Fantastic, un misterioso eroe che indossa puma rosso fuoco e marchia New York con la firma "Shao 007". Un supereroe immaginario che condensa e potenzia i racconti di leggende del writing come Taki 183, Super Kool, Phase 2 e Lee, e viene accompagnato con ironia e gusto vintage da una regia in stile blaxploitation e kung-fu movie.
Il tocco di Luhurmann è quindi marcato, ma funzionale a raccontare questo tipo di epopea hip-hop, senza scadere nel musical trash di Breaking 2 o in quello luccicoso del più recente Glee. Il South Bronx del 1977 è mostrato con una cura maniacale dei dettagli, mentre una traccia sonora costante , e mai invadente, ci fa passare agilmente da una situazione all'altra. Zeke, l'aspirante poeta, usa le rime per cavarsi d'impiccio nelle situazioni cruciali ma il suo stile recitativo rimane incollato alla realtà del momento, non stona mai (in tutti i sensi!) con la narrazione. Il rap come strumento drammaturgico e taumaturgico del personaggio. Lo stesso vale per le scene di ballo. Non una parentesi d'effetto, come ci ha abituato la tradizione del dance movie americano, ma un canalizzatore narrativo che getta nuova luce sul carattere e la funzione dei personaggi, li fa agire, li avvolge e li completa. Un parallelo interessante, in questo senso, è costituito dalla gara di ballo nel locale disco e la sfida nel cerchio nella festa di strada: non solo un confronto fra diversi stili di ballo, ma due universi speculari dove gli stessi personaggi liberano nuove sembianze e potenzialità. Per il resto: fotografia, movimenti di macchina, tempi drammaturgici ed effetti speciali tutti al top, tutti alla Netflix.
In questo primo episodio non mancano ovviamente le strizzate d'occhio e gli omaggi. Giocando su immagini di repertorio e ricostruzioni digitali delle stesse, The Get Down riprende le immagini di Style Wars, documentario storico di Tony Silver e Herny Chalfant del 1983 che raccontava il rapporto conflittuale fra l'hip-hop e la municipalità newyorkese, e quelle Martha Cooper, la pioniera della fotografia hip-hop che ha immortalato le fasi di sviluppo delle quattro discipline. E come già accennato c'è Wild Style, con i dilemmi esistenziali e il lettering di Zoro (Lee Quinoňes) evidentemente trasposti nelle rime e negli occhi commossi di Zeke. A voi scovare altri titoli, pseudonimi e immagini ibridate dalla storia mediatica della doppia H.
The Get Down si candida a diventare un prodotto multiuso da consigliare nel momento in cui qualcuno chiede: "Che cos'è l'hip-hop?". Una narrazione di finzione, non un documentario, che finalmente ci racconta la storia di come nascono le storie. Sdoganando il mito dell'io-c'ero, e affidandosi al capitale milionario di Netflix, Luhrmann ha compiuto le sue ricerche con dettaglio maniacale e quello che esce dal suo cilindro è un immaginario potenziato e non di nicchia, che racconta i mille volti del Bronx con suspance, romanticismo, poesia e azione. Resta da vedere cosa succederà negli episodi successivi, e per farlo, non sarebbe male allestire una proiezione collettiva con le chiappe intorno al dance floor.
In questo primo episodio non mancano ovviamente le strizzate d'occhio e gli omaggi. Giocando su immagini di repertorio e ricostruzioni digitali delle stesse, The Get Down riprende le immagini di Style Wars, documentario storico di Tony Silver e Herny Chalfant del 1983 che raccontava il rapporto conflittuale fra l'hip-hop e la municipalità newyorkese, e quelle Martha Cooper, la pioniera della fotografia hip-hop che ha immortalato le fasi di sviluppo delle quattro discipline. E come già accennato c'è Wild Style, con i dilemmi esistenziali e il lettering di Zoro (Lee Quinoňes) evidentemente trasposti nelle rime e negli occhi commossi di Zeke. A voi scovare altri titoli, pseudonimi e immagini ibridate dalla storia mediatica della doppia H.
The Get Down si candida a diventare un prodotto multiuso da consigliare nel momento in cui qualcuno chiede: "Che cos'è l'hip-hop?". Una narrazione di finzione, non un documentario, che finalmente ci racconta la storia di come nascono le storie. Sdoganando il mito dell'io-c'ero, e affidandosi al capitale milionario di Netflix, Luhrmann ha compiuto le sue ricerche con dettaglio maniacale e quello che esce dal suo cilindro è un immaginario potenziato e non di nicchia, che racconta i mille volti del Bronx con suspance, romanticismo, poesia e azione. Resta da vedere cosa succederà negli episodi successivi, e per farlo, non sarebbe male allestire una proiezione collettiva con le chiappe intorno al dance floor.
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