In Italia, si sa, abbiamo un grosso problema con la commedia. La "commedia all'italiana", così come gli spaghetti al pomodoro, è il brand salvagente a cui il feudalesimo dello spettacolo si riempie la bocca e (speranzoso) le tasche. Un fenomeno, quello della commedia all'italiana, che sostanzialmente nasce e si esaurisce nel cinema di Steno, Monicelli, Risi, Age & Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico degli anni 50. In questo senso La Grande Guerra (Monicelli, 1959) fa da spartiacque: riunisce idealmente il personaggio di Alberto Sordi in Un eroe dei nostri tempi (1955) e quello di Vittorio Gassman de I Soliti Ignoti (1958), uno poliziotto, l'altro "lavoratore", e li catapulta nel bagno di sangue della prima guerra mondiale. Seguirà una stagione di rivoluzioni, dove i vari "poveri ma belli" fanno i conti con la fine del boom economico e vengono mano a mano annichiliti dalla cultura televisiva. Durante l'age d'or delle pagliacciate smanettone e scorreggione dei vari Lino Banfi e Alvaro Vitali, arriva Fantozzi di Paolo Villaggio (1975) che, fra i tanti, percula quel melieu cinefilo di sinistra che non sa più ridersi addosso e Un sacco bello di Carlo Verone (1980) che è l'ontogenesi cine-televisiva del coatto romano tardo-capitalista. Lo scivolone avviene negli anni 90 quando la satira di destra si lega a doppio filo col potere a tubo catodico: da un lato le pochade del Il Bagaglino, dall'altro quelle dei Cinepanettoni targati Vanzina. La risposta dei progressisti [sic.] avviene tramite commedie moral-melodrammatiche, che dal colpo di coda di Monicelli in Amici Miei (1975) vanno gradualmente impaludandosi con le saghe di Verdone, Pieraccioni, Aldo Giovanni e Giacomo, Benvenuti al... e l'infamoso, definitivo, Checco Zalone. Questa menata storica, solo per dire che Italiano medio parte già con le "mani nella merda".